Ho visto (05/2017)

Ho visto
tutti i colori del mondo
in un unico tramonto.
Ho udito
tutti i sospiri della terra
in un’unica onda, infranta sulla riva.
Ho sognato
tutti i sogni, in unico sogno,
coprendomi gli occhi con l’acqua del mare.
E ho percorso
ogni strada del mondo,
lasciando tutte le mie impronte,
guardandole scomparire nella schiuma stesa sulla sabbia.
E tutte le città
di tutti  Paesi
li ho visti
in un’unica montagna di sabbia, asciugata dal sole morente
su una spiaggia al tramonto,
sgretolarsi, portata via dalla brezza gonfia di salsedine.

E ho ricevuto tutti i baci
in un’unica carezza, labbra di vento, sospinta dal cielo.

Ero al centro di ogni cosa:
ho vissuto il mondo intero
in un’unico tramonto.
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Si ritorna, sempre, davanti al mare.

Vincent Van Gogh, Lettere a Theo, Guanda, Parma 1984

“C’è fannullone e fannullone.

C’è chi è fannullone per pigrizia o per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi prendermi per uno di quelli.
Poi c’è l’altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me, che è dunque?

Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale.

Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: “Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata”, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore.
“Ecco un fannullone” dice un altro uccello che passa di là, “quello è come uno che vive di rendita”.
Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Accessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità.
“Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!”.
Quel tipo di fannullone è come quell’uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile… Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede “Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?“.
Sai tu ciò che fa sparire questa prigione?

È un affetto profondo, serio.
Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente.
Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte.

Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita.”